Walter Bignami

Giochi di una volta

Nei ritagli di tempo, soprattutto quando piove o fa freddo, mi diverto a scrivere storie di vario genere riguardanti soprattutto i tempi passati e i periodi della mia gioventù. Guardandomi intorno, una delle cose che mi colpisce di più riguarda i comportamenti e gli atteggiamenti degli adolescenti di oggi nei confronti di quelli della mia infanzia. Sono passati circa 60 anni che sembrano tanti, ma, se penso a come sono trascorsi velocemente, devo dire che sono veramente pochi. È così che ho preso in considerazione gli anni in cui i ragazzi si ritrovano ad avere dagli 11 fino ai 14 anni circa (dalla fine delle scuole elementari fino alla fine delle scuole medie). Oggi a questa età dominano l’elettronica, i videogiochi, i computer e i telefonini. In questo periodo della loro esistenza molti ragazzi di oggi praticano alcuni sport, soprattutto calcio, pallacanestro ecc., ma quasi sempre organizzati, con un allenatore a disposizione, con la loro divisa, tuta, apposite scarpette e via dicendo. Lo sport praticato ai miei tempi, oltre alle scorribande nei monti, era esclusivamente il calcio. Tutti i giorni si andava al campo sportivo, si giocava solo se si riusciva a “raccattare” uno dei pochi palloni da calcio posseduti da qualcuno di noi (due o tre in tutto il paese), si sorteggiavano le squadre e si disputavano partite che a volte in estate duravano dalle 14,00 alle 18,00 del pomeriggio. Per il resto esistevano solo i vari “giochi”. In alternativa al calcio, a volte si andava “dal prete” e si giocava nell’apposita sala a bigliardino (calcio balilla) o a ping-pong. Molti pomeriggi venivano dedicati ai vari “giochi” e credo sia giunto il momento di farne l’elenco. Penso che questi oggi siano proprio spariti dalla circolazione:

IL TELEFONINO

Incredibile ma vero! Anche 60 anni fa esistevano i telefonini! Non avevano nulla a che fare con quelli di oggi riguardo alla tecnologia e all’utilizzo, ma a noi piacevano lo stesso. Non erano in commercio ma venivano creati dai bambini. Ci si ritrovava in due e la “materia prima” utilizzata non erano altro che due barattoli vuoti con l’apertura solo da un lato e uno spago lungo circa 10/15 metri. Venivano praticati due fori sul fondo dei due barattoli, vi si facevano passare i capi della corda e, con un nodo all’interno dei due barattoli, il collegamento era concluso e i due telefonini terminati. Un ragazzo si allontanava con un barattolo in mano e, quando il filo era ben tirato, la conversazione poteva iniziare; un ragazzo parlava usando l’interno del suo barattolo, mentre dall’altra parte si ascoltava portando all’orecchio l’altro. A volte addirittura uno dei due ragazzi girava l’angolo di un palazzo e la conversazione veniva effettuata senza che i due interlocutori si vedessero. Voi non ci crederete, ma si sentivano le due voci abbastanza chiare e per noi era una cosa rivoluzionaria.

LE FIGURINE PANINI

Quello del telefonino era un gioco riservato a pochi ragazzi tecnicamente all’avanguardia. Quelli che descriverò di seguito erano molto più comuni e praticati. Le figurine Panini hanno lasciato un solco indelebile nella formazione dei ragazzi che oggi, come me, si ritrovano in un periodo storico che si è evoluto forse troppo in fretta rispetto alla nostra cultura. A quei tempi la ditta Panini di Modena era all’avanguardia nella distribuzione tramite le edicole delle figurine. Ognuna di queste rappresentava l’immagine a colori di un calciatore, la squadra di appartenenza e tutte le informazioni sui dati anagrafici dello stesso oltre alle esperienze nelle squadre dove in precedenza aveva giocato. Esisteva un album dove appenderle, album che naturalmente veniva fornito gratuitamente per invogliarci ad acquistare le bustine che di solito contenevano dieci figurine. Riempire l’album completamente non era facile in quanto alcuni giocatori proprio non si trovavano mentre altri al contrario erano presenti in quantità elevate. Naturalmente era un espediente per fare acquistare ai bambini un numero maggiore di figurine. Facendo un paragone e con le dovute proporzioni con le grandi aziende di oggi, Panini a quei tempi si poteva paragonare ad Amazon, che imperversa in tutti i campi in pratica utilizzando gli stessi criteri anche se si sono evoluti nel tempo. Ad ogni modo credo che la ditta Panini esista tutt’oggi e oltre alle figurine fornisca anche altri prodotti. Noi ragazzi per accelerare i tempi e terminare le varie collezioni, non facevamo altro che fare scambi procurandoci così buona parte di quelle mancanti. A volte, per possedere una figurina quasi introvabile, eravamo costretti a cederne almeno dieci di quelle in nostro possesso. Oltre al collezionismo, le figurine ci davano la possibilità di giocare con la speranza di vincerne alcune. Il gioco più praticato, era senz’altro quello che chiamavamo “facce o pirole”. Non so il significato di quest’ultima parola né da cosa derivi e neppure internet mi ha aiutato a risolvere il mistero. Ad ogni modo le “facce” non erano altro che la parte anteriore della figurina dove appariva la foto del personaggio sportivo, mentre “pirole” era il lato posteriore. Si giocava in due e, alternativamente, uno di noi sceglieva l’opzione lanciando in alto 10 figurine (cinque di ogni giocatore), quindi raccoglieva le figurine con l’immagine che aveva scelto. Esempio: se diceva “facce” e a terra ve ne erano sette, queste erano le sue mentre le tre rimanenti rimanevano all’amico con una “perdita” di due figurine. Un secondo gioco consisteva nell’appoggiare al muro di una casa una figurina alla volta e poi lasciarla. Questa operazione veniva ripetuta alternativamente da entrambi i due sfidanti; se si verificava che una figurina si fermasse sopra ad una in terra, entrambe venivano raccolte dal fortunato e diventavano sue. Dopo una decina di lanci a testa, colui che aveva effettuato più sovrapposizioni tratteneva le vincite fatte. L’ultimo gioco che ricordo, veniva praticato anche da più di due giocatori: si lanciava il più lontano possibile una figurina a testa. La figurina che veniva lanciata più lontana, era quella vincitrice e il proprietario si portava a casa tutte le altre.

I TAPPINI

Giocare con i “tappini” delle bibite era un vero divertimento. Le aranciate, le gassose, la coca-cola e le varie birre, fornivano in abbondanza questo prezioso articolo che ci permetteva di effettuare gare molto impegnative. I vari bar e ristoranti erano i fornitori ufficiali dei “tappini” utilizzati. A volte questi erano leggermente piegati a causa dell’uso troppo violento dello “stappabottiglie”, ma questo non era un problema: avevamo il sistema per riportarli allo stato originale. All’interno dei “tappini”, ognuno di noi appiccicava l’immagine ritagliata del corridore in bicicletta preferito. Naturalmente le figurine utilizzate erano quelle Panini dedicate al ciclismo. Io stranamente tifavo per Defilippis, un velocista niente male ma certamente superato da altri molto più completi di lui. Alcuni di noi addirittura cercavano i “tappini” con le scritte e disegni più belli. Le gare si disputavano preferibilmente sugli scalini della Chiesa di Bagno e consistevano nel completare il tragitto dei tre scalini esistenti con meno colpi possibili; per colpi intendo “colpi di schicchera” (termine trovato in internet) che vengono effettuati colpendo col dito medio il tappino dopo che il dito stesso viene liberato dal pollice che lo tratteneva. Se il tappino, colpito troppo violentemente, usciva dal gradino, esso ritornava alla partenza. La posta in palio erano figurine del settore ciclismo. Esistevano altri modi di giocare con i “tappini”, ma quello sopra descritto era il più praticato. Tutte le ore del giorno erano buone escluse quelle durante le quali dentro la Chiesa si svolgevano le sacre funzioni.

GLI ELASTICI

Anche il gioco con gli elastici era molto gradito a noi ragazzi. L’operazione più importante era quella di costruire la propria “arma” in modo che fosse della misura giusta tale da poter permettere di essere lanciato il più lontano possibile. La materia prima indispensabile era la “cameradaria” di bicicletta non più utilizzabile dai meccanici in quanto le forature rattoppate col “Tip Top” avevano raggiunto un numero limite. I meccanici sapevano della nostra necessità e le tenevano da parte per noi. Nei periodi in cui le richieste erano tante, a volte pretendevano qualche lira di compenso, non tanto per il valore della cameradaria, quanto per il rompimento di coglioni da parte nostra. La confezione di un elastico era molto semplice: dalla cameradaria si creavano, usando le forbici, degli anelli larghi poco più di un centimetro, una decina di questi venivano inseriti fra di loro tirando forte per fare un bel nodo e, una volta terminata l’operazione, il gioco era fatto. Inserendo il dito pollice nell’anello anteriore e l’indice in quello posteriore, si tirava forte l’elastico per poi togliere le dita e farlo partire come un razzo. Negli anni Sessanta, soprattutto alle scuole medie e superiori, subentrò la moda di eliminare la vecchia cartella e raccogliere i libri con degli elastici dotati di ganci agli estremi. Non era il massimo, ma oltre al risparmio, ti permetteva di aderire a questa nuova trovata. Qualche ragazzo colse l’occasione per edificare un elastico rivoluzionario così concepito: si toglievano con le forbici i due ganci e si tagliava il lungo elastico in due parti; a questo punto queste venivano piegate in due e lungo tutto il corpo delle stesse venivano annodati cinque o sei elasticini equidistanti; dalla parte piegata veniva lasciato uno spazio per inserire il dito pollice, mentre la parte opposta serviva per trattenere l’elastico quando si allungava; una volta ben teso, si apriva la mano e il missile partiva lasciando spesso un livido in una delle nostre cosce (fino alla terza media di solito si portavano i calzoni corti). L’avvento di questo elastico innovativo, mandò definitivamente in pensione la vecchia cameradaria assieme alle sue numerose toppe di Tip Top. Chiudo il discorso degli elastici spiegando brevemente quello che ricordo sul gioco da noi praticato: si formavano due squadre di cinque o sei bambini, ci si spargeva uno ad uno per tutto il paese e dopo circa dieci minuti iniziava la battaglia. Quando due ragazzi di squadre opposte si incontravano, il più veloce cercava di colpire il rivale; se vi riusciva era il vincitore, se invece falliva il colpo, non poteva scappare e l’avversario lo colpiva pronunciando la parola “vuto” che nel nostro gergo significava “colpito”. Di solito si colpiva il rivale disarmato con un tiro molto leggero ma a volte vi era qualche eccezione. Ne sono testimone in quanto in una battaglia all’ultimo sangue, tirai il mio elastico contro “Neno”, un bagnese che stava a Firenze ma che spesso veniva al paese natio. Mi aspettavo il solito “vuto” con relativo elastico che mi colpiva in modo leggero, quando mi vidi arrivare nella coscia un missile a velocità tremenda; risultato: l’impronta del suo elastico a forma di livido rosa mi rimase impresso per diversi giorni. Preferisco tralasciare la sua giustificazione alle mie proteste e dico solo che all’ora prestabilita ci ritrovavamo tutti in piazza e si stabiliva la squadra che risultava vincitrice in base alle “vittime”. Non vi erano premi in palio, ma la soddisfazione di aver vinto equivaleva ad una medaglia.

LA FIONDA

Penso che ogni bambino abbia avuto il desiderio di possedere una fionda. Purtroppo in città questa possibilità era quasi preclusa in quanto trattasi di un oggetto pericoloso e, se si vuole usare, necessita di molto spazio. A Bagno di Romagna, paese montano e pieno di boschi, la fionda dava la possibilità a noi ragazzi di esternare la nostra abilità senza mettere a rischio l’incolumità di nessuno. I nostri genitori ci avevano allertati e quindi ci sfogavamo più che altro facendo a gara a sparare i nostri proiettili (sassi) dalla riva sinistra del fiume Savio (cioè dai giardini pubblici), verso la montagna sovrastante. Si capiva subito chi era il più bravo e chi era riuscito a costruire la fionda migliore. Oggi in commercio esistono fionde di ogni genere, in plastica, in legno e in altri materiali di vario genere. Nulla a che vedere con le nostre che erano dei veri e propri prodotti artigianali. Ognuno di noi si recava nel bosco per cercare un legno con una biforcazione a V perfetta. Ciò non era sufficiente in quanto il legno doveva essere di un certo tipo (non ricordo il nome delle piante più adatte e robuste ma a quei tempi eravamo dei veri esperti) e il rametto da cui partiva la V doveva essere posizionato diritto al centro e non avere alcun difetto. Una volta venuti in possesso della fionda, con un coltellino si provvedeva a togliere la corteccia esterna, eliminare eventuali sporgenze o nodi e a questo punto questa era pronta per gli ulteriori interventi. Si scavavano due piccoli solchi all’estremità dei due rametti che erano situati nella parte superiore della V per permettere a due robusti elastici di essere ben fissati agli stessi. Non rimaneva che procurarsi da Elio il calzolaio dei pezzetti di cuoio sui quali erano praticati lateralmente due fori che servivano a far entrare gli elastici che venivano fissati. Questo piccolo rettangolo di cuoio era la sede dei sassi. Una volta posizionati, si prendeva con la mano destra il manico della fionda, si stringeva con la sinistra il cuoio che, tirato verso di noi con forza, permetteva agli elastici di essere pronti per il lancio. La stretta sul sasso veniva abbandonata e questo partiva a razzo per raggiungere l’obiettivo. Penso che se un bambino di oggi potesse assistere ad uno dei nostri lanci, poserebbe a terra meravigliato il suo telefonino e chiederebbe un bis, gettando subito nel cestino la sua piccola fionda cinese Amazon da un euro, causa del progressivo abbandono di questo splendido attrezzo/giocattolo. Tengo a precisare che i sassi erano perfettamente rotondi e frutto di una accurata ricerca nel fiume Savio che ce li forniva gratuitamente dopo secoli di modellamento con l’ausilio delle sue acque.

LE PALLINE DI COCCIO

Si trovavano solo in piazza dalla “Maddalena”, titolare di un negozietto pieno di golosità (caramelle, carrube, lupini, lecca lecca e addirittura un
gelato “finto” con cono in biscotto ma al posto della crema o cioccolato era posizionata una pallina di zucchero dai colori molto tenui) ma anche di giochi per bambini. Per gli acquisti bisognava avere i soldi alla mano perché non concedeva credito e il suo motto era: “Senza lilleri non si lallera”. Le palline di cocciolato erano una meraviglia, grandi circa il doppio di un nocciolo di ciliegia e multicolori. Ho cercato nei vari mercatini del martedì a Bagno di Romagna, ma penso non ne esistano più. Dopo alcuni anni dalla loro comparsa, la Maddalena mise in commercio anche le “vetrici”, palline di vetro più grandi con all’interno una specie di rosa dei venti colorata. Le vetrici erano molto belle ma avevano il difetto che, dopo averci giocato per molti giorni, si rigavano in superficie e perdevano molto del loro splendore. Naturalmente le vetrici avevano un costo che superava di molto quello delle palline di coccio. Per giocare con le palline costruivamo apposite piste, ma il gioco più praticato era quello che consisteva nel tirare e colpire la pallina dell’avversario a terra diventandone proprietario. Ricordo che quando si riusciva a colpire la pallina rivale, si pronunciava con entusiasmo la parola “TIC”.

LE CERBOTTANE E GLI ARCHI

Un breve cenno su questi ulteriori giochi con attrezzi da noi costruiti: le cerbottane non erano altro che dei tubetti lunghi circa 30 centimetri che costruivamo con delle canne forate all’interno. Si costruiva una specie di cono di carta che veniva inserito da una parte e che, soffiando, usciva dalla parte opposta come una pallottola. I nostri archi invece, venivano costruiti, così come le loro freccette, utilizzando i ferretti all’interno degli ombrelli. Naturalmente erano ombrelli rotti e abbandonati dai proprietari raccolti e accantonati da noi per costruire le nostre “opere”. Ho giocato poco con questi attrezzi anche perché ad un certo punto alcuni bambini si divertivano a tirare ai gatti (nella punta delle cerbottane veniva inserito uno spillo) che, se colpiti, facevano veramente pena. Non incolperei più di tanto i ragazzi in quanto non si rendevano conto del male che procuravano alle povere bestie.

PALLA AVVELENATA

A palla avvelenata si giocava di solito nel cortile antistante la canonica, a quei tempi molto più ampio di quello attuale. Sarebbe stato bello giocare anche in piazza, ma Potreca (lo chiamavamo così ma il suo vero nome era Podrecca), la guardia Comunale e padre del mio amico Werther Cornieti, era intransigente e aveva minacciato multe salatissime. La sua severità era nota a tutti tanto che sapevamo che alcuni anni prima aveva affibbiato una sanzione alla moglie che aveva steso i panni in una zona vietata. La palla veniva chiamata “avvelenata” in quanto se ti colpiva eri fuori dal gioco. Era una palla grande all’incirca come quelle da tennis, di gomma, abbastanza dura ma non tanto da farti male anche se lanciata con violenza. Non sto a descrivere i particolari ma solamente un paio di episodi che riguardano l’amico Rossi Renzo, detto “Cudenna”, che nella sua breve vita è stato veramente sfortunato. La prima sventura avvenne un giorno che, giocando nel cortile, la pallina finì attraverso un finestrino con sbarre sotto la casa del prete, dentro ad una cantina: Renzo si offrì volontario e, attraverso le sbarre si calò dentro e ci gettò la pallina. Il problema si verificò all’uscita: la finestrella era posizionata nella stanza ad una altezza di circa due metri e Renzo riuscì a malapena ad aggrapparsi alle sbarre; un conto era discendere, ma la salita era impossibile nonostante i nostri tentativi di soccorso. Alcuni di noi si recarono a cercare Monsignore che quando arrivò ad aprire era quasi buio e il ragazzo era spaventatissimo. A questo vanno aggiunti i rimproveri del prete con minaccia di punizione da parte dei genitori. La seconda disavventura ci spaventò a tutti in modo considerevole. A fianco del cortile scendeva una strada in discesa asfaltata che portava in Via Lungo Savio. A quei tempi saranno scese da quella via al massimo due o tre macchine al giorno. La palla schizzò fuori dal cortile e Renzo fu il più svelta ad andare a prenderla. In quel preciso momento passava la “Topolino” di Gastone Damiani, un nostro compaesano; Renzo fu travolto in pieno dalla macchina che gli passò sopra. Gastone si fermò un paio di metri dopo con urla disperate (“mi ha attraversato all’improvviso”, “era impossibile frenare in tempo”) cercando dietro alla macchina il “cadavere” del ragazzo. Ebbene, miracolosamente il “cadavere” era sparito e di corsa era andato a casa spaventatissimo. Gastone non lo aveva visto assolutamente, noi eravamo rimasti di stucco vedendolo scappare come un matto. Incredibile ma vero! Non si era fatto niente! Le versioni più accreditate nel descrivere l’accaduto erano quelle che ipotizzavano che le ruote della piccola vettura avessero attraversato il corpo e le costole, con la loro elasticità, avessero salvato il nostro amico. Tutto è bene quel che finisce bene!

IL RUBA BANDIERA

Il buon Potreca era più permissivo quando si giocava a “Ruba Bandiera” in quanto era un gioco meno invadente di quello sopra descritto. Si giocava in piazza con due squadre di tre/quattro persone ciascuna oltre al “portabandiera”. Questo si posizionava proprio nel centro della piazza con un braccio teso in avanti portante un fazzoletto che chiamavamo “bandiera”. Le due squadre si piazzavano, spalle al muro, una a fianco del campanile e l’altra appoggiata al muro dell’asilo in modo da essere equidistanti dal portabandiera. Alternativamente un bambino di ogni squadra si avvicinava al fazzoletto e con un braccio lo accerchiava. Colui che riusciva a portare via la bandiera e tornare al proprio posto senza farsi toccare dall’avversario, era il vincitore. Prima di afferrare il drappo, si potevano fare delle finte per ingannare l’avversario; se lui ti toccava abboccando alle stesse, perdeva la contesa. Vinceva la squadra che contava più vittorie nell’afferrare la bandiera tornando al suo posto.

LA BICICLETTA

Ai nostri tempi possedere una bicicletta era un lusso, ma, bene o male, tutti riuscivamo a trovare il sistema per utilizzarne una. Mio padre voleva acquistarmela ma io preferii rifiutare per risparmiargli la spesa dichiarando: “Ma scherzi? Mi trovo benissimo anche con la tua, è grande ma io sono alto e arrivo benissimo ai pedali”. Era una bugia in quanto avrei gradito tantissimo una bella bici nuova e di un bel colore e il “biciclettone” nero di mio padre mi consentiva di pedalare ma solo con la punta dei piedi. Pochi in verità avevano una bici nuova; gli altri utilizzavano quella del padre o di un parente e a volte si vedevano dei bambini pedalare col corpo infilato sotto al cannone. La bicicletta non era proprio un “gioco” in quanto serviva soprattutto per andare alla scuola media a San Piero. La maggior parte di noi, fino alla terza media, portava i calzoni corti e, in inverno, quando le temperature si avvicinavano allo zero, le cosce diventavano viola di un colore molto simile a quello che l’elastico di “Neno” aveva lasciato sulla mia. Tutti i giorni, al ritorno da San Piero, dal distributore “Caltex” iniziava una volata che terminava nel bel mezzo del ponte sul “fosso della Cappella”. Io arrivavo sempre ben piazzato, ma i vincitori risultavano sempre o Franco Lombardi o Ennio Barchi. Erano molto bravi ma penso che era determinante il fatto che le loro biciclette erano le più nuove. Quando nevicava, i due “taxisti da rimessa” Prognole e l’Americano con i loro macchinoni, ci consentivano di frequentare regolarmente le lezioni. Loro due erano di San Piero e qualche anno dopo arrivò anche il bagnese Egisto Olivi detto “Tacconi” in quanto oltre a noi ragazzi, il servizio veniva effettuato anche per i turisti di Bagno che volevano visitare San Piero per acquisti o per il mercato del mercoledì. Per quanto riguarda la scuola, dopo diversi anni arrivarono i famosi “pulmini”, ma quelli della mia generazione avevano già terminato le medie. Chiudo il discorso “bicicletta”, col fare presente che in un certo periodo qualcuno ebbe l’idea di trasformarla in “motorino”. Ognuno di noi collocava in un montante vicino alla ruota, una cartolina postale fermandola con delle comuni mollette per il bucato. Mentre si pedalava, la cartolina si infilava fra i raggi della bici producendo un rumore molto simile a quello dei motorini. Fu proprio questo rumore a causare la breve durata di questo divertimento: Potreca, sollecitato dai cittadini che si erano rotti le scatole per quella “romba” quotidiana, ci intimò la sospensione immediata interrompendo quella che in futuro si sarebbe potuta dimostrare un’idea tecnologica e rivoluzionaria.

LA NEVE

Oggigiorno non nevica quasi più ma ai nostri tempi i tre mesi invernali e anche alcuni giorni di primavera, causavano uno splendido tappeto bianco che rendeva noi bambini felicissimi. Si giocava a fare le “pallate”, si andava nei campi in pendenza con slitte in legno artigianali da noi costruite e ci si dilettava a far nascere enormi pupazzi che erano dei veri capolavori. La cosa che mi è rimasta più impressa è il naso che veniva creato inserendo nel viso una enorme carota. I geloni alle mani per me in inverno erano una consuetudine.

LA PESCA

Bagno di Romagna da sempre può considerarsi fortunata per quanto riguarda i corsi d’acqua. Il paese è situato a pochi chilometri di distanza dalle sorgenti, a monte non esistono industrie e tutti gli scarichi vengono convogliati con tubazioni verso il depuratore a valle di San Piero. Nonostante ciò, rispetto ai tempi in cui ero un bambino (oltre 60 anni fa), la fauna ittica ha subito notevoli variazioni. Il fiume Savio attraversa il paese per tutta la sua lunghezza, non ha una grande portata ma l’acqua è limpida. Ancor più limpida è l’acqua dei quattro principali affluenti che sono dei torrenti in gergo chiamati “fossi”. Un paio di chilometri a monte, troviamo il “Fosso delle Gualchiere” e il “Fosso di Becca”. Entrami hanno le sorgenti nelle montagne dei “Mandrioli”, un’acqua limpidissima e una discreta portata anche in estate. Il centro abitato è attraversato dal “Fosso della Cappella”, così chiamato perché, a poche centinaia di metri dal suo ingresso nel fiume Savio, costeggia una splendida chiesetta. A monte del paese entra nel fiume principale il “Fosso del Chiardovo”, comunemente chiamato in questa maniera in quanto nel suo percorso passa vicinissimo alla frequentatissima sorgente di acqua solfurea. Quest’ultimo è l’unico torrente che, se l’estate è siccitosa, cala notevolmente la sua portata tanto da rimanere quasi in secca. Va considerato che la composizione delle rocce a Bagno di Romagna ha una caratteristica molto permeabile (e la risalita delle acque calde termali lo dimostra) e i nostri fiumi calano notevolmente in pochi chilometri la loro portata, ma in compenso incrementano le falde acquifere sotterranee. Ho divagato con queste descrizioni per arrivare al punto: quando ero un bambino i “fossi” erano pieni di trote e gamberi e il Savio era ricco di pesci come i barbi e le piccole lasche che oggi sono quasi spariti. Vi erano inoltre moltissime rane, rospi e bisce acquaiole ora rarissimi. Nel Savio annualmente vengono gettate trote di allevamento che alimentano la pesca sportiva; fortunatamente si vedono ancora alcuni barbi, un pesce stupendo con forma molto simile al delfino e dotato di due piccoli baffetti. Le piccole squisite lasche in pratica sono sparite. Molti attribuiscono questo cambiamento alle stragi fatte dagli aironi, una volta inesistenti dalle nostre parti, ma oggi presenti in misura notevole nei nostri fiumi e torrenti. L’airone è un uccello bellissimo che si nutre di pesci, rane e di tutta quella fauna ittica che si è ridotta tantissimo. Ai miei tempi il Savio e i suoi affluenti pullulavano di pesci. Si andava a pescare con la canna e se si attaccavano più ami, si tiravano su in un solo colpo anche tre o quattro piccole lasche. Queste erano squisite fritte. Un altro modo per portarle in padella era la loro pesca con la “bilancia”. Era così chiamata una rete ancorata a due ferri perpendicolari fra di loro; la rete veniva fissata agli estremi in modo che i ferri formassero un arco; in cima allo stesso veniva legato un lungo bastone che permetteva di calare la “bilancia” in acqua; dopo pochi minuti si alzava la rete dall’acqua e di solito era piena di piccole lasche che venivano raccolte con un secchio. La pesca più divertente e gradita a noi bambini era però la “pesca a mano”. Ci si immergeva nelle pozze d’acqua e si “frugava” sotto ai sassi per prendere i grossi barbi che lì si rintanavano. Ottime tane che pullulavano degli squisiti pesci erano anche quelle poste sotto la riva ai lati del fiume e nei “gabbioni”, grosse strutture per limitare le frane che consistevano in gabbie con dentro grossi sassi prelevati dal Savio. Oggi i gabbioni sono stati quasi completamente sostituiti da muri in cemento armato. Ad ogni modo le trote si pescavano prevalentemente nei “fossi” mentre i barbi nel Savio. Avendo questi pesci una certa stazza, il metodo migliore per portarli a casa era la “sfilza”, che veniva ricavata da rametti di vinco, debitamente liberati dalla piccola corteccia esterna; ogni vinco era lungo circa 30 centimetri e aveva in fondo una diramazione di circa 5/6 centimetri che permetteva ai pesci di non uscire dalla parte inferiore; il pesce pescato veniva infilato dall’apertura laterale della testa (branchia) nella parte superiore del vinco e ogni sfilza conteneva una decina di pesci.

Ho terminato la mia carrellata dei principali giochi praticati da noi bambini negli anni ‘50/’60. Se qualcuno leggerà queste poche righe, forse mediterà sui cambiamenti che la tecnologia ha portato nella vita, nelle abitudini e soprattutto nei giochi praticati dai bambini e di conseguenza anche negli adulti. I computer, i telefonini e tutte le altre diavolerie disponibili oggi, permettono ai giovani di apprendere molte cose in più rispetto ai nostri tempi. Vi sono anche molte “controindicazioni” ma preferisco ignorarle sperando che siano solamente impressioni mie personali per giunta errate. Ad ogni modo il motto “si stava meglio quando si stava peggio” penso sia sempre attuale.

I GIOCHI DELLE BAMBINE

A questo punto mi sembra doveroso un accenno a quelli che erano i “giochi” praticati dalle bambine. Al contrario di oggi dove maschi e femmine sin dall’infanzia hanno rapporti più stretti e condividono tramite Face book o Waths App le loro esperienze e i loro passatempi, ai tempi nostri le bambine venivano contattate quasi esclusivamente a scuola. Fuori da quegli orari, le ignoravamo proprio in quanto i nostri interessi e giochi erano completamente diversi dai loro. Durante i miei 45 anni di matrimonio mia moglie alcune volte ha accennato alla sua infanzia: viveva con i suoi genitori e la sorella Cristina in un condominio di Via Manin; sei appartamenti con famiglie numerose; le femmine coetanee erano quattro o cinque mentre solo un maschio (Aiala figlio di Amneris) aveva all’incirca la loro età. Nei primi anni delle elementari giocavano con le bambole, ma siccome queste erano poche in quanto costose e per giunta alcune bruttine in quanto fatte artigianalmente dalle loro madri, il gioco della palla ebbe il sopravvento e, approfittando dell’ampio muro del condominio privo di finestre nella parte sud, era questo che subiva le “pallate” delle bambine. Ricordo che un gioco consisteva nel gettare la palla contro il muro e fare delle giravolte su se stesse. La più brava era quella che riusciva a farne di più. Un altro gioco che non prevedeva l’uso della palla, era chiamato “campana”. Ornella mi ha detto varie volte che le bimbe saltavano sopra a dieci quadrati disegnati a terra col gesso. Non ho mai saputo cosa vi era disegnato in quei quadrati, come faceva una bimba a vincere e a questo punto penso che non me ne freghi proprio più di tanto. Il gioco del “salto della corda” forse è più facile da spiegare che da praticare. Una corda lunga circa un metro veniva afferrata agli estremi dalle mani delle bambine e veniva fatta passare sopra la testa ruotando da dietro in avanti; giunta in basso si doveva saltare e la bimba più brava era quella che lo faceva più volte. Se qualche maschietto provava l’esercizio, faceva una figuraccia in quanto le femmine, molto più aggraziate, lo battevano nettamente. Oggi in tutti i parchi pubblici esiste almeno una altalena; nel condominio di via Manin due corde legate ad un ramo perpendicolare di una pianta e un legno piatto legato alle stesse, davano la possibilità anche a quei tempi di praticare questo divertente passatempo. Da qualche anno nei mercatini del martedì a Bagno di Romagna ,spesso si vedono dei bimbi (ma soprattutto delle bambine) con la loro mercanzia venduta ai turisti e messa in mostra sopra a enormi scatoloni (giochi dismessi e cianfrusaglie di ogni genere), ebbene, oltre 50 anni fa, succedeva la stessa cosa in Via Manin e le bambine erano quelle del condominio; al posto degli scatoloni venivano utilizzati i “barocci” dei genitori, che erano dei carretti di piccole dimensioni con sole due ruote che servivano loro per trasportare la legna. Le bimbe facevano scambi di merce fra di loro, mentre i clienti che acquistavano la misera mercanzia non erano altro che i genitori e parenti. Quando le bambine divennero un po’ più grandi, una di loro ebbe in regalo una piccola bicicletta. I genitori delle altre non potevano restare impassibili e, con grandi sacrifici, dotarono ogni loro figlia di una “biciclettina”. Da quel che ho appreso da mia moglie, in qualche anno centinaia di chilometri furono da loro percorsi girando attorno al condominio. L’ultimo “gioco” raccontatomi da Ornella, era anche il più violento: le bimbette si divertivano a giocare agli indiani e il divertimento consisteva nel legare il povero Aiala ad un palo girandogli intorno urlando e punzecchiandolo con dei bastoncini. Le storie sui giochi delle bambine finiscono qui. Non mi sembrava giusto non dedicare loro un piccolo spazio.

Foto da mostra: “Ai tempe del Corojie”